Cos’è una costituzione? La risposta non è affatto ovvia. Secondo un giurista autorevole come Mario Dogliani, che l’ha scritto sull’ultimo numero di Democrazia e Diritto è “un potere che sappia unire, metter pace, suscitare fiducia, rendere tangibile la speranza di un futuro e di un benessere comune”. È un’idea di sapore habermasiano, cui è sotteso nientemeno che il “patriottismo della costituzione”.
Ognuno fa il suo mestiere. A ragionare in termini di potere, una costituzione è piuttosto, per citare ancora Dogliani, “un potere forte che sappia imporsi”. Che s’impone materialmente, che s’impone simbolicamente, con la precisazione che il potere simbolico, la reputazione è, di tutte le forme di potere, la più irresistibile. Ma sempre di potere si tratta. Le costituzioni sono perciò documenti scritti dai vincitori. Che naturalmente proclamano di porsi dalla parte dell’universale, perché l’universale gode di straordinaria reputazione, ma che in realtà rappresentano il loro punto di vista particolare.
Viste le costituzioni nella prospettiva del potere, i vincitori le scrivono per due ragioni. La prima per risparmiare potere. Sono marchingegni utili a renderlo invisibile, ad automatizzarlo, a farne routine. Più elevata è la reputazione di cui godono le costituzioni, più e meglio funzionano. Per questo sono consacrate da liturgie solenni. Naturalmente, lo schieramento dei vincitori è transeunte, si ridefinisce senza posa, ma le democrazie beneducate hanno l’accortezza di evitare gli sconquassi.
Coloro che scrivono una costituzione dichiareranno che è per sempre. Chi verrà dopo, se è saggio almeno un poco, penserà sì che la costituzione è superata, ma riterrà più comodo tenersela, giovandosi della sua stagionatura e della reputazione che si porta appresso. Nelle democrazie beneducate le costituzioni s’interpretano, si applicano, si emendano senza troppo frastuono. Non si riscrivono. Soprattutto, come ha opportunamente osservato Ida Dominijanni nel medesimo numero di Democrazia e diritto, non si usa la retorica della rivoluzione per manometterla. Intanto, la rivoluzione non s’intravede. Si è osservato semmai uno squallido mercato attorno a una abborracciata riscrittura. In secondo luogo, a usare a sproposito della retorica rivoluzionaria, è la reputazione della costituzione che ne patisce.
L’altro elemento che dà valore alle costituzioni è il loro potenziale unificante. Che conviene esse abbiano e mantengano. Le costituzioni sono anche un programma politico, ma le classi dirigenti beneducate le pensano, scrivono e vivono come un documento finalizzato a unire e non a dividere. Non riusciranno a scrivere mai un programma universalmente condiviso, ma proveranno a dargliene le sembianze. E cercheranno di raccogliere intorno ad esso il massimo accordo possibile. Quando vi riescono, e di solito fanno in modo da riuscirci, la reputazione dell’accordo è un’altra risorsa preziosa, che conviene non dissipare, quantunque col tempo le intenzioni di chi la scrisse si consumino e nuove classi dirigenti, con altre intenzioni e altri interessi, sopravvengano.
Le costituzioni le scrivono – e prescrivono – i vincitori. E i cittadini ordinari le accolgono. Di rado dissentono, tanto meno apertamente, perché dissentire apertamente per la gente comune è dispendioso. Non che la gente comune – il continuo citare di La Boétie sta diventando insopportabile – sia condannata alla servitù volontaria. Semmai dispone di tecniche più economiche della ribellione per dissentire: parcheggia in seconda fila, anziché ribellarsi a un governo sconsiderato del traffico.
Ma è proprio per prevenire questa forma corrosiva di dissenso che i vincitori cercano di fare della costituzione un patrimonio condiviso e rispettato il più largamente possibile. E coloro che vengono dopo tendono a non smentirli. Trattano la costituzione con rispetto e la rammendano, se del caso, con garbo. È ipocrisia? Forse. Ma le ipocrisie aiutano a campare. Alla IV Repubblica francese, che mise la costituzione del 1946 sotto accusa per un decennio, finì molto male. In Italia la Costituzione repubblicana è sotto stress da quasi un quarantennio e siamo messi malissimo.
Qualche tempo fa, in un dizionario di diritto, ancora Mario Dogliani aveva definito la Costituzione un armistizio. La definizione è suggestiva e a prima vista condivisibile. Alla luce di quanto premesso, c’è tuttavia da ripensarci. L’Italia del ’46-48 usciva da una guerra civile. La Costituzione non fu un armistizio tra sconfitti e vincitori. Fu un’imposizione dei vincitori agli sconfitti e semmai, se armistizio ci fu, a stipularlo furono i vincitori tra loro. I quali vollero scongiurare una nuova guerra fratricida, come quella in corso in Grecia, e decisero di scrivere insieme un testo di compromesso, che non per caso ebbe inizialmente vita stentata.
Non rimuoviamo il passato. Il compromesso fruttificò a distanza, superata la stagione del centrismo “di ferro”, allorché tra le parti politiche si ristabilì una condizione di equilibrio, che mise termine all’aperta inadempienza costituzionale. La nuova condizione di equilibrio si fondò sulla volontà degli elettorali e sull’avvio del disgelo, dopo la guerra fredda. Ma non fu per nulla vissuta pacificamente. Fu accompagnata, lo ricorda sempre Ida Dominijanni, da drammatici tentativi di eversione e dall’iscrizione in agenda della riforma costituzionale, traendo spunto dalle difficoltà dell’azione di governo. Anzi, scaricando sulla costituzione la responsabilità del malgoverno.
Passato tanto tempo, c’è da domandarsi se tale messa in agenda non si debba anche alla parzialità dell’armistizio originario. Ovvero che sia stato un tentativo di rivincita contro i vincitori di allora e il modello di società e di democrazia cui essi pensavano. Non era il solo movente. La riforma è stata messa in agenda pure da chi propendeva per un modello di democrazia alternativo: meno europea e più anglosassone, meno conciliante e più manageriale.
Ma negli anni del berlusconismo questo secondo aspetto si è intrecciato con quello della rivincita. Umori democratici, postdemocratici e antidemocratici si sono così pericolosamente intrecciati. Le modalità con cui è stato approvato il testo promosso dal governo Renzi, l’accordo iniziale con Berlusconi, il rifiuto di una ampia e meditata riflessione, nonché di cercare vasto consenso, fanno pensare che l’intreccio, anche contro la volontà di alcuni, sia divenuto piuttosto stretto.
È fuori di dubbio che il testo che sarà sottoposto a referendum il 4 dicembre rappresenti il superamento della “Repubblica fondata sul lavoro”, oltre che dell’idea di democrazia maturata in Assemblea costituente. Ma è indubbio soprattutto che corrisponda a una nuova configurazione dei rapporti di potere che in esso cerca conferma. La sociologia dei nuovi vincitori è radicalmente diversa da quella del 1946-48. Non ci sono né i resistenti che sfilavano orgogliosamente sulle vie di Milano e di Torino il 25 aprile del 1945 e nemmeno gli antifascisti come De Gasperi e Benedetto Croce, che rappresentavano il cattolicesimo democratico e la tradizione liberale. C’è un’altra Italia.
Nel ’46-48 c’erano grandi partiti, con un larghissimo seguito popolare e piccoli partiti ad alta caratura intellettuale. C’era un ceto imprenditoriale e c’era una grande industria pubblica. C’era un solido sistema bancario pubblico, rimesso in sesto, tocca ammetterlo, dal fascismo. C’era la chiesa cattolica. C’era, malgrado tutto, uno Stato, con la sua amministrazione e il suo ceto amministrativo. Niente era perfetto, ma c’erano molte cose. Nell’Italia di oggi si scorgono unicamente poteri fiochi. Ovvero una costellazione di bande che si disputano senza quartiere le poche risorse disponibili.
La Costituzione del ’48 fu adottata quasi all’unanimità, a seguito di un ricco, colto, appassionato dibattito. L’approvazione del nuovo testo è frutto di una sequenza di colpi di mano perpetrati dall’esecutivo, profittando di un disgraziato esito elettorale, prodotto da una – volutamente – pessima legge pseudomaggioritaria, da un caotico assetto parlamentare e da molti altri fattori: la pressione invasiva del capo dello Stato in carica; i calcoli di convenienza di un po’ di parlamentari in cerca di rielezione; l’incoerenza politica, l’ambiguità, e talora la viltà, dei dissenzienti in parlamento; il plauso di un coro mediatico compiacente; la sponsorizzazione di qualche imprenditore che campa alla giornata. Non vanno sottovalutati neppure gli spregiudicati disegni personali del capo del governo, che forse più che a rivedere il testo, puntava sul successivo referendum per farne un plebiscito in suo favore.
Vi ha una responsabilità non secondaria la debolezza dell’opposizione. Il potere non è mai solo. È anche come lo fanno i suoi avversari. Ancora negli anni di Berlusconi c’era nel paese, e nella sfera politica, un’opposizione, composita, dissonante, ma comunque visibile e vitale. Una parte di tale opposizione ha cambiato campo e il resto si è disperso. Il logoramento provocato dal dibattito sulla riforma è stato lunghissimo e tenacissimo. La stanchezza è un sentimento diffuso.
Tra i sostenitori del sì al referendum ci sono studiosi, intellettuali, personalità politiche, cittadini meritevoli del massimo rispetto, di sicuro affezionati alla Costituzione del ’48 e al suo programma. Il loro assenso è in buona fede. Finalmente, dicono, si volta pagina. Si esce da questo tormento e si ricomincia a far politica. Potrebbero perfino avere ragione. Il sospetto è che il tormento non finirà. Il nuovo testo è così sgangherato che sarà solo pretesto per proseguire il tormento.
I veri vincitori sono quanti assistono alla partita da fuori: i poteri forti che agiscono su scala globale. Che hanno ottenuto in regalo una costituzione destrutturata. Ida Dominijanni ha scritto che il fine del nuovo testo è di “ri-naturalizzare i rapporti di dominio capitalistici, liberandoli dalla gabbia di contenimento del diritto e dei diritti”. Difficile è darle torto. Solo che questo testo non è che la consacrazione formale di un processo di destrutturazione di lunga lena. Anzi: è un testo che consacra la costituzione occulta che regge il paese da almeno un decennio. Quella del fiscal compact, del bilancio in pareggio, dei vincoli europei. Sulla quale gli italiani non sono affatto chiamati a pronunciarsi e che resterà in vigore comunque: è la vera costituzione, vinca il sì, vinca il no.
Una considerazione sulla legge elettorale. È una pessima legge. Ma non, come si racconta in giro, perché i calcoli sono stati fatti male e potrebbe far vincere il Movimento 5 Stelle, ma perché comprime spietatamente il pluralismo che sprigiona da questo paese. Ora, il male non si cura, ammesso che male sia, occultandone i sintomi. Anche se leggi analoghe vigono da altre parti, questa è una legge indecente sotto il profilo della più modesta deontologia democratica. Ed è pure un grave errore politico. Sostituirla con una legge che impedisca al Movimento 5 Stelle di vincere le elezioni non la renderebbe preferibile nemmeno un poco.
Il successo del Movimento 5 Stelle è effetto della dissennata conduzione del paese e dovrebbe pure ricordarci che l’Italia è complicata e che le semplificazioni, che le leggi elettorali inseguono da un quarto di secolo, sono inutili violenze. Pure le leggi elettorali le scrivono i vincitori. Di nuovo però, quando sono accorti, i vincitori non abusano dell’opportunità. Sanno bene che gli umori degli elettori sono prevedibili fino a un certo punto.
In conclusione. La costituzione occulta è figlia di un nuovo assetto di potere, che travalica il raccogliticcio schieramento che ha promosso la riforma Renzi. Nessuna delle due ha molto di buono. Se cadesse l’una costituzione, persisterà l’altra e quindi nessun problema sarà stato risolto. Almeno per chi sia persuaso che una democrazia decente non si contenti di sapere la sera delle elezioni chi governerà l’indomani, ma pretenda una società più giusta di quella in cui ci tocca vivere al momento.
La soluzione del problema è però ancora tutta da pensare. E passa attraverso una dura e difficile battaglia politica. Per vincere la quale occorrerà per prima cosa costruire rapporti di forza diversi e pronunciare parole diverse. Ovvero imporre un altro “regime di verità” rispetto a quello vigente al momento. Che rischia di travolgere anche coloro che attualmente si sentono i vincitori. Sarebbe bene persuadere anche loro. Ma bisogna soprattutto persuadere le vittime, cioè gli italiani.
Il regime di verità vigente è fatto di decisionismo semplificatorio e di fondamentalismo di mercato. Ciascuno deve tirarsi fuori dai guai da solo, con le sue capacità, con la sua individuale imprenditività. Tanto peggio per chi non regge la concorrenza. A mantenere l’ordine provvederà un potere che deciderà alla giornata. Fritz Scharpf ha parlato di output oriented democracy. La democrazia è affare di chi governa. I cittadini giudicheranno alle elezioni: fingiamo che ciò sia possibile. Non fosse che le società occidentali sono oggi società iperpluralistiche, diseguali, sofferenti, che non si ribellano apertamente, tranne sporadiche eccezioni, ma sono molto riottose. È un modello di conduzione della vita collettiva che non funziona e provoca disastri.
Il regime di verità che i vincitori avevano imposto nel dopoguerra si fondava sull’idea di compromesso, di coinvolgimento, di combinazione tra cose diverse, al costo dell’imperfezione. Ebbene, non è necessario essere nostalgici di quel tempo ormai finito per ritenere che si debba dismettere l’idea che nel disordine che stiamo vivendo si possa imporre un qualche ordine instaurando la caricatura di un’autorità monocratica. Tutt’altro: avesse buon senso, l’autorità dovrebbe riconoscere la sua parzialità, incompiutezza, provvisorietà. Dovrebbe riconoscere che non serve un imbonitore televisivo al timone, ma che vanno piuttosto convinti i marinai a remare.
L’Italia ristagna economicamente, culturalmente, socialmente da più o meno quarant’anni. Così tutto l’occidente. Il regime di verità in vigore è esausto. Ne va elaborato uno nuovo. Solo che le verità non sono universali e non sono nemmeno autoevidenti. Vanno scoperte tramite l’azione politica. Questo per dire che, comunque vada, dopo il referendum, nulla sarà più facile di prima.
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