La crisi del 2008 e la stagnazione che ne è seguita hanno prodotto una grave caduta della produzione industriale; l’indice della produzione nella manifatturiera è oggi di 20 punti percentuali al di sotto del livello di otto anni fa. La perdita di attività è avvenuta soprattutto per le imprese che producevano per il mercato interno, colpito dalla caduta della domanda. Una diminuzione analoga, intorno appunto al 20%, è avvenuta per gli investimenti. E ne è seguita, come è noto, una grave perdita di lavoro.
Il nostro Paese ha perso in questo modo una parte significativa della propria capacità produttiva, cedendo molte posizioni nella gerarchia dei sistemi produttivi a livello europeo e internazionale. Alla radice di tale indebolimento ci sono tre fattori: la caduta di domanda per le imprese, provocata dalla lunga stagnazione dell’economia; la fragilità strutturale del sistema produttivo italiano, caratterizzato dalle piccole dimensioni d’impresa e da produzioni di modesto livello tecnologico; l’assenza di una vera politica industriale che definisca una nuova traiettoria di sviluppo.
Di fronte a questi problemi l’azione del Governo ha mantenuto l’impostazione affermatasi nei decenni passati, lasciando alle imprese le scelte produttive, senza alcun indirizzo generale e senza alcun sostegno alla domanda. Nella Legge di Bilancio 2017 si continua, proprio come in passato, con interventi limitati alle sole misure “orizzontali” che trattano tutte le imprese allo stesso modo. In particolare le azioni principali che troviamo comprendono:
- la riduzione delle imposte sulle imprese, la riduzione dell’Irap sul costo del lavoro, facilitazioni sull’Ires;
- il credito d’imposta per le spese di ricerca e sviluppo. Si tratta di attività che hanno avuto finora un impatto modesto. La Legge di Stabilità per il 2015 ha finanziato crediti di imposta per 2,6 miliardi per il periodo 2015-2020, con un credito massimo per contribuente di 5 milioni di euro. La Legge di Bilancio per il 2017 porta tale limite a 20 milioni di euro e aumenta i rimborsi al 50% della spesa per ricerca e sviluppo svolta all’interno delle imprese;
- l’ammortamento accelerato per l’acquisto di macchinari, fino al 140% del costo originario per i nuovi investimenti. Si tratta di una vecchia forma di intervento che ha il vantaggio dell’automatismo e della vasta platea di imprese utilizzatrici (tra 2014 e 2015 oltre cinquemila piccole e medie imprese hanno richiesto l’incentivo, a fronte di investimenti di circa 1,7 miliardi). Tale intervento tuttavia ha l’effetto di accelerare l’introduzione di nuovi processi che tendono ad avere effetti negativi sull’occupazione;
- la detassazione per le imprese che aumentano il loro capitale di rischio;
- la nuova norma sul “superammortamento” al 250% del costo originario degli investimenti, legati a “Industria 4.0”, in beni ad alta tecnologia (Big Data, automazione, eccetera);
- le garanzie sui prestiti alle piccole e medie imprese;
- alcune forme di sostegno alle nuove imprese start-up;
- il cosiddetto “patent box”, che offre alle imprese (soprattutto alle multinazionali straniere) detrazioni fiscali elevate (al 50% nel 2017) per i guadagni che si ottengono da brevetti, marchi, licenze e vendite di software. L’esperienza internazionale mostra che queste misure sono usate dalle grandi imprese per ridurre il carico fiscale globale, senza effetti concreti sull’aumento delle attività tecnologiche.
Inoltre, è bene ricordare in questo contesto che le imprese hanno beneficiato in modo indifferenziato degli sgravi contributivi e della riduzione del salari associata al Jobs Act.
Fondare le politiche sugli sgravi fiscali ha effetti pesanti sulla riduzione delle entrate pubbliche: secondo l’Istat gli incentivi fiscali alle imprese, l’intervento sull’Irap e l’ammortamento accelerato hanno avuto un costo pari a 3,5 miliardi di euro nel bilancio del 2016.
L’effetto immediato di queste misure è quello di sostenere i profitti delle imprese, riducendo in modo significativo la tassazione. Ma nel più lungo periodo tutto ciò ha l’effetto di mantenere immutata l’attuale struttura produttiva del Paese, consentendo anche a imprese piccole, poco produttive, a bassa tecnologia e con pochi investimenti di sopravvivere grazie alla riduzione dei salari e al peggioramento delle condizioni di lavoro. L’esito è quello già visto nei decenni passati: una diminuzione della produttività che rallenta la crescita, riduce i salari e peggiora la competitività.
Al contrario, una vera politica industriale che guidi lo sviluppo del Paese richiede un nuovo ruolo dell’azione pubblica, la definizione di aree prioritarie verso cui indirizzare l’evoluzione del sistema produttivo, la mobilitazione di risorse pubbliche e private sia per attività di ricerca che per investimenti.
Nuove istituzioni responsabili per la politica industriale vanno pertanto costruite sulla base di principi diversi dal passato, assicurando la prevalenza dell’interesse pubblico rispetto alle logiche delle lobby industriali e della finanza, un dibattito democratico sulle priorità dello sviluppo del Paese, la trasparenza e il monitoraggio dei programmi realizzati. Questa nuova politica industriale selettiva può centrarsi su tre aree prioritarie per lo sviluppo tecnologico, produttivo e occupazionale e concentrare qui le risorse per programmi di ricerca, investimenti pubblici, uso della domanda pubblica di beni e servizi, incentivi alle imprese.
Le tre aree sono: (a) le tecnologie e le produzioni di beni e servizi “verdi”, capaci di aumentare la sostenibilità dell’economia, ridurre il consumo di energia e di materie prime non rinnovabili, l’impatto sul cambiamento climatico, il consumo di suolo, favorire lo sviluppo di energie rinnovabili e di sistemi di trasporto sostenibili; (b) la diffusione e applicazione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, incoraggiando le esperienze di Open Data, Open Source e Open Innovation che valorizzino la dimensione cooperativa delle attività in rete; (c) l’espansione delle conoscenze e della produzione di beni e servizi legati alla salute e al welfare pubblico, un tema di rilievo primario nel contesto dell’invecchiamento della popolazione e dell’esigenza di tutelare i servizi pubblici sanitari e sociali.
Diverse misure sono state già realizzate della politica pubblica in questi ambiti, senza tuttavia una visione strategica d’insieme sul rilievo che tali azioni possono avere per il sistema economico nel suo insieme. Concentrare le risorse della politica di bilancio in queste tre aree significa avviare una trasformazione del sistema produttivo verso una maggior sostenibilità ambientale, una maggior intensità tecnologica, una maggior produttività e competitività, migliori forniture di beni e servizi pubblici.
Inoltre, queste aree prioritarie su cui concentrare azioni e interventi mirati di politica industriale sono caratterizzate da attività ad alta intensità di lavoro e da occupazioni con competenze e salari medio-alti. Tale trasformazione può essere alimentata da investimenti privati e da un ruolo chiave della finanza pubblica, a partire dalla Cassa Depositi e Prestiti – o da una nuova banca d’investimento pubblica – con il compito di sostenere, anche con acquisizione di quote di capitale, nuove iniziative economiche in questi campi.
LE PROPOSTE DI SBILANCIAMOCI!
1)Ridurre le politiche “orizzontali” per la ricerca industriale
È possibile dimezzare le risorse per il credito d’imposta alla ricerca e sviluppo. La Legge di Bilancio 2017 prevede infatti di destinare 500 milioni di euro per il credito d’imposta alle imprese: si propone pertanto che questo importo sia ridotto a 250 milioni di euro, utilizzando il resto dei fondi a disposizione per realizzare programmi di ricerca finalizzata.
Maggiori entrate: 250 milioni di euro
2)Un nuovo programma di ricerca pubblica
Si propone di finanziare con 250 milioni di euro una serie di programmi sperimentali di ricerca pubblica focalizzati nelle tre aree di intervento prioritarie per stimolare il cambiamento del sistema produttivo del Paese: lo sviluppo di tecnologie e produzioni di beni e servizi verdi, la diffusione e applicazione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione (puntando su open data, open source e open innovation), l’espansione delle conoscenze e della produzione di beni e servizi legati alla salute e al welfare pubblico. Tali programmi dovranno essere definiti dalle nuove istituzioni per la politica industriale del Paese e, nell’immediato, potranno essere selezionati da una Commissione composta da rappresentanti dei Ministeri della Ricerca, dello Sviluppo Economico, dell’Ambiente, della Salute e da esponenti dell’Agenzia per l’Italia Digitale, dell’Agenzia per la Coesione, della Conferenza dei Rettori e del Cun. Si tratta di programmi che potrebbero coinvolgere università, istituti pubblici e privati di ricerca e imprese, stimolando a loro volta nuove attività di ricerca finanziate dai privati. Una volta ricostruita una capacità di intervento pubblico nei programmi di ricerca in questi ambiti, le risorse da destinarvi potranno essere aumentate in modo notevole negli anni successivi.
Costo: 250 milioni di euro
3)Un nuovo programma di investimenti pubblici
Si propone di avviare un nuovo programma di investimenti pubblici da 500 milioni di euro, da destinare a tre aree prioritarie: lo sviluppo di tecnologie e produzioni di beni e servizi verdi, la diffusione e applicazione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione (puntando su open data, open source e open innovation), l’espansione delle conoscenze e della produzione di beni e servizi legati alla salute e al welfare pubblico. In questo modo sarebbe possibile costruire una prima massa critica di attività finalizzate al cambiamento del sistema produttivo del Paese e delle sue infrastrutture. Un intervento pubblico come questo richiede la creazione di nuove istituzioni – ad esempio un’Agenzia per gli investimenti – in grado di definire e realizzare una politica di investimenti pubblici e di orientamento degli investimenti privati. Oggi, gli interventi in questo campo sono demandati alla Cassa Depositi e Prestiti, a Invitalia, oppure a enti locali o soggetti pubblici con specifiche competenze. È necessario utilizzare nell’immediato le strutture esistenti, ma nuove istituzioni sono necessarie per sottrarre le scelte d’investimento da realizzare nell’interesse pubblico agli interessi privati particolari e a logiche puramente finanziarie.
Costo: 500 milioni di euro
4)Un nuovo bando Prin straordinario nel 2017
Data la grande e qualificata partecipazione all’ultimo bando Prin pubblicato nel 2015 e finanziato nel 2016, solo l’1,3% dei 4.431 progetti presentati è stato ammesso a finanziamento. Si propone dunque di pubblicare un nuovo bando straordinario nel 2017 destinato a finanziare progetti di ricerca di base al Sud finalizzati a indagare le disuguaglianze territoriali. Le risorse necessarie potrebbero essere garantite dalla destinazione di una parte (240 milioni di euro) dei Fondi previsti nel 2017 per il PON Ricerca e Innovazione.
Costo: 0
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