sabato 31 dicembre 2016

Referendum, due antidoti alla crisi

La straordinaria vittoria del No all’aggressione progettata da Renzi contro la nostra Costituzione ha rivelato due cose, entrambe purtroppo ignorate dalla maggior parte dei commentatori e dall’intero ceto politico.

La prima rivelazione è stata la capacità di resistenza mostrata da questa nostra Costituzione agli attacchi dei nostri governanti, che ormai da 30 anni non cessano di attribuirle le responsabilità della propria inettitudine. Il referendum del 4 dicembre, come già quello di dieci anni fa contro l’analoga aggressione mossa dalla destra di Berlusconi, è stato vinto dalla Costituzione antifascista del ’48. Ebbene, questa vittoria dovrebbe servire di lezione a quanti fossero tentati dal ripetere, in futuro, altre aggressioni di questo tipo.

Dopo tanti attacchi falliti, la prima risposta di un ceto politico capace di prendere atto e di rispettare questa vittoria della Costituzione e, insieme, del costituzionalismo, dovrebbe consistere in una riforma-rafforzamento della procedura di revisione prevista dall’art. 138, onde mettere al riparo i principi costituzionali da altre analoghe avventure.

Il rafforzamento dovrebbe consistere in due innovazioni: in primo luogo nell’elevazione ad almeno i 2/3 dei parlamentari dei voti necessari alla revisione; in secondo luogo nell’esplicita prescrizione che la revisione possa consistere solo in singoli e puntuali emendamenti in grado di provocare, nel referendum oppositivo previsto dallo stesso art. 138, quesiti omogenei ai quali l’elettore, come più volte ha stabilito la Corte costituzionale, possa rispondere con un sì o con un no sul loro merito specifico.

La seconda cosa che la vittoria della Costituzione ci ha fatto scoprire è stata l’esistenza di un’Italia civile di cui non sospettavamo le straordinarie dimensioni. Si è sviluppata in Italia, durante la lunga campagna referendaria, una mobilitazione spontanea in difesa della Costituzione, la quale è stata riscoperta e in molti casi scoperta da milioni di persone, soprattutto da milioni di giovani.

È questa Italia civile che il sistema politico continua a ignorare, al punto da dividere i 19 milioni dei No, cioè il 60% dell’elettorato, tra i partiti di opposizione – da un lato il Movimento 5 Stelle, dall’altro la destra di Berlusconi e Salvini – e da consentire a Renzi di intestarsi il restante 40% dei voti, cioè tutti i voti per il Sì.

È una raffigurazione tanto ottusa e offensiva quanto infondata – un segno ulteriore della frattura tra ceto politico e società – che ignora totalmente il ruolo svolto, in questa vittoria popolare della Costituzione, dalle centinaia di Comitati per il No nati spontaneamente in tutta Italia. Giacché è ben vero che una parte rilevante del No è stata contro Matteo Renzi. Ma il voto contro Renzi non è stato affatto un qualsiasi voto di parte. È stato il voto contro il tentativo di trasformare la nostra democrazia parlamentare in un’autocrazia elettiva in grado di ridurre le garanzie costituzionali dei diritti dei più deboli. È stato perciò, in gran parte, un voto anch’esso a sostegno della Costituzione repubblicana, con la cui manomissione Renzi è stato identificato.

Quanto ai Sì, essi non sono affatto interamente e forse neppure prevalentemente a favore di Renzi. Fra di essi vanno inclusi quanti si sono lasciati fuorviare da una campagna elettorale terroristica contro il No, fatta di menzogne e di allarmismi (il crollo delle borse, la fuga degli investimenti, la crescita dello spread, l’uscita dell’Italia dall’euro) e quanti hanno abboccato a un quesito truffaldino e ingannevole trasmesso decine di volte al giorno da tutte le televisioni (la riduzione dei costi della politica e altre simili amenità).

E allora, se tutto questo è vero, dobbiamo riconoscere che questo voto è stato, prevalentemente, un voto in difesa della democrazia parlamentare e, perciò, per la rifondazione della rappresentanza politica. Un voto, in altre parole, che chiede di mettere all’ordine del giorno, come la vera questione costituzionale, pregiudiziale a qualunque altra, quella dell’assenza di rappresentatività dell’attuale sistema politico e della sua distanza crescente dalla società.

È questo difetto di rappresentanza – la popolarità dei partiti, non dimentichiamolo, è oggi inferiore al 3%, cioè praticamente uguale a zero – che il referendum, con la sua difesa della Costituzione, ha denunciato con forza. Naturalmente non è facile apprestare rimedi a questo crollo di rappresentatività, che del resto riguarda anche gran parte delle altre democrazie europee.

Ci sono tuttavia due condizioni a mio parere necessarie per fronteggiare una simile crisi: una riforma elettorale in senso proporzionale e una rifondazione dei partiti in grado di restituirli al loro ruolo di organi della società anziché dello Stato.

La prima condizione riguarda la legge elettorale. Dobbiamo finalmente essere consapevoli, dopo un quarto di secolo di ubriacatura maggioritaria e di democrazia del capo (e dei capi in concorrenza tra loro), che la sola legge elettorale capace di garantire la rappresentatività del sistema politico, la centralità del Parlamento, la rigidità della Costituzione e, insieme, la rifondazione dei partiti sulla base di un loro rinnovato ancoraggio alla società è una legge proporzionale o comunque quanto più perfettamente proporzionale.

Solo il sistema proporzionale, infatti, garantisce l’uguaglianza del voto e la rappresentanza di tutti, senza premiare né danneggiare nessuno. Solo grazie a una legge proporzionale il partito di maggioranza relativa che riceve, poniamo, il 30% dei voti, è costretto, per formare una maggioranza di governo, a cercare in Parlamento e a concordare alla luce del sole un programma con altre forze politiche sulla base del compromesso parlamentare, che altro non è che la condizione e la garanzia della centralità del Parlamento in una democrazia parlamentare degna di questo nome.

Solo un sistema elettorale proporzionale garantisce quel tratto antifascista delle Costituzioni del secondo dopoguerra che è la loro rigidità, dato che non consegna la maggioranza assoluta, e con essa il potere di revisione costituzionale e di elezione delle istituzioni di garanzia, alla maggiore minoranza.

Infine, solo grazie a una legge proporzionale possono svilupparsi partiti politici in grado di rappresentare interessi sociali e opinioni politiche differenti e tra loro in potenziale conflitto. Al contrario i sistemi maggioritari favoriscono la personalizzazione dei partiti quali partiti del leader, producono la verticalizzazione dei sistemi politici intorno al capo vincente e comportano inevitabilmente l’emarginazione del Parlamento e il declino dei partiti quali luoghi di formazione della volontà popolare.

Emblematica in tal senso era la costituzione Renzi-Boschi bocciata dall’elettorato, che assegnava automaticamente il 54% dei seggi alla minore minoranza, con il risultato che in base ad essa il presidente del Consiglio indicato sulla lista vincente avrebbe ottenuto la fiducia, ben più che dal Parlamento, unicamente dal suo partito e si sarebbe impossessato dell’intero assetto costituzionale; con la conseguente riduzione dei partiti a macchine elettorali dei leader, prive di identità programmatica e inevitabilmente finalizzate, nelle competizioni elettorali, a catturare il voto cosiddetto moderato, che è sempre anche il voto più incerto, più spoliticizzato e disinformato, e perciò ad assomigliarsi nei programmi e a differenziarsi e a contendere su questioni marginali.

La seconda condizione, connessa alla prima, è forse ancor più decisiva ai fini della rifondazione della rappresentanza politica. Consiste nella necessità di una legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione che imponga ai partiti di garantire il “metodo democratico” da esso previsto perché i loro iscritti possano “concorrere… a determinare la politica nazionale”.

Oggi, al contrario, i partiti difettano totalmente di regole di democrazia interna. È questa assenza di regole che è la causa principale della loro trasformazione in organizzazioni personalizzate, o peggio in gruppi di interessi privati esposti a inquinamenti mafiosi o comunque malavitosi, e perciò del crollo della loro rappresentatività e credibilità. Ebbene, è chiaro che solo una legge può oggi garantire, con la sua eteronomia, la separazione e l’autonomia dei partiti dalle pubbliche istituzioni e restituirli al loro ruolo di organi della società, anziché dello Stato, quali soggetti rappresentati anziché rappresentanti.

Una simile legge dovrebbe imporre il radicamento sociale dei partiti sul territorio, l’uguaglianza e la pari dignità degli iscritti, il rispetto per il dissenso, la libertà della critica e dell’opposizione interna, la separazione dei poteri e il primato delle assemblee territoriali di base quali luoghi di formazione della volontà degli iscritti in grado di vincolare o comunque di orientare le decisioni degli organi dirigenti. Ma, soprattutto, essa dovrebbe, in accordo con il classico principio della separazione dei poteri, introdurre la netta separazione tra cariche di partito e funzioni pubbliche anche elettive, tra rappresentati e rappresentanti, tra controllori e controllati, mediante rigide regole di incompatibilità.

Naturalmente i dirigenti di partito sarebbero di solito destinati ad essere eletti nelle istituzioni rappresentative. Ma in tal caso avrebbero l’onere di dimettersi dai loro uffici di partito, lasciando il loro posto a nuovi dirigenti in grado di indirizzarne e controllarne il futuro operato.

Si porrebbe così fine all’attuale occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, i quali dovrebbero essere investiti di funzioni soltanto di indirizzo politico – la formulazione dei programmi, la scelta dei candidati alle elezioni, il controllo e la responsabilizzazione degli eletti – e non anche direttamente di poteri di gestione della cosa pubblica. Venuti meno i conflitti di interesse che si manifestano nelle auto-candidature dei dirigenti e nella cooptazione dei candidati sulla base della loro fedeltà, i partiti recupererebbero legittimazione politica, autorevolezza e capacità di aggregazione sociale.

Un ceto politico capace di capire la società e il significato profondo del No al referendum sulla nostra Costituzione comprenderebbe come queste due riforme – il sistema elettorale proporzionale e la rifondazione democratica dei partiti – sono oggi i soli antidoti alle attuali degenerazioni dei nostri sistemi politici che la riforma Renzi-Boschi avrebbe rafforzato.

La crisi della rappresentanza prodotta dalle leggi elettorali maggioritarie e dalla smobilitazione sociale dei partiti è sotto gli occhi di tutti. Essa si manifesta in due caratteristiche che accomunano le politiche liberiste e l’anti-politica populista, il populismo governativo dall’alto e quello antigovernativo dal basso. La prima consiste nella sostituzione delle tradizionali mediazioni svolte da partiti radicati nella società con il rapporto diretto, organico, tra capi e popolo, inteso il popolo come un tutto indifferenziato.

La seconda è un’operazione demagogica di indubbia efficacia nella conquista del consenso: fomentare la guerra tra poveri, alimentando e mobilitando i peggiori istinti – la paura, l’egoismo, l’aggressività verso il diverso, il razzismo – contro i soggetti più deboli ed emarginati della società; mettere i penultimi contro gli ultimi e gli ultimi contro i penultimi: i poveri e gli emarginati contro i migranti, i non garantiti contro i garantiti, i maschi contro le donne, in generale gli emarginati e gli esclusi contro quanti sono ancora più esclusi o viceversa, onde ottenere il consenso degli uni attraverso, volta a volta, la riduzione dei diritti degli altri.

È una strategia consistente nel ribaltare la direzione del conflitto sociale: non più la lotta di classe di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma al contrario la lotta di chi sta in basso verso chi sta ancora più in basso. Si pensi al successo elettorale di Trump negli Stati Uniti, dove si è accertato che tra coloro che hanno votato Trump e le sue promesse contro gli immigrati ci sono stati molti migranti dell’ultima generazione, timorosi di nuovi arrivi di nuovi migranti.

Di qui la disgregazione sociale di segno apertamente anti-costituzionale: la distruzione delle vecchie soggettività politiche, basate sulle lotte inclusive contro le disuguaglianze che l’art. 3, 2° comma della nostra Costituzione identifica con gli “ostacoli” che la Repubblica deve “rimuovere”, e la loro sostituzione con soggettività opposte, di tipo identitario, razzista o religioso o nazionalista o maschilista, basate al contrario sulla lotta escludente contro le differenze – di etnia, di religione, di nazionalità di sesso – che l’art. 3, 1° comma è diretto invece a tutelare e a valorizzare.

È poi evidente che al crollo delle identità e delle soggettività politiche collettive corrispondono la regressione delle soggettività individuali, il venir meno del senso civico e dell’impegno politico, il primato degli interessi personali e lo sviluppo dei fenomeni dell’illegalità diffusa, del voto di scambio e della corruzione. Che sono precisamente i fattori del declino odierno della nostra democrazia.

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