Il BES e la misurazione del benessere in Italia
Nel marzo del 2013, un giorno dopo la presentazione in pompa magna (a Roma presso l’Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari, in presenza delle più alte cariche dello Stato) del primo rapporto ISTAT sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), il Corriere della Sera sottotitolava la notizia relativa a tale evento con le seguenti parole “Istat: nel 2013 il Pil è già calato dell’1%”. Sarebbe come dare la notizia della vittoria di Donald Trump alle Presidenziali statunitensi sottolineando che Bernie Sanders è in rimonta nei sondaggi: inutile e fuori bersaglio.
Il fatto che uno dei principali quotidiani nazionaliponesse l’accento sull’andamento del Pil proprio mentre veniva presentato un progetto volto al superamento di simili misure mette in evidenza due questioni importanti. In aggiunta alle evidenti responsabilità dei media mainstream italiani, sulle cui competenza e affidabilità non ci soffermeremo oltre, è necessario riconoscere una seconda plausibile causa dell’infelice scelta, ovvero la scarsa fruibilità di BES e indicatori analoghi.
Il BES si presenta infatti come un sistema di 130 indicatori suddivisi in 12 macro aree, che puntano a catturare pienamente la complessità che caratterizza il concetto stesso di benessere. L’abbondanza di indicatori inclusi ogni anno nel rapporto BES è figlia del principio di inclusività secondo cui la definizione stessa di benessere deve risultare da un processo di deliberazione tra rappresentanti di istituzioni, società civile e parti sociali. Nonostante un simile approccio democratico abbia garantito al BES il supporto trasversale dei diversi attori in campo, ha al contempo pesato duramente sulla sua fruibilità e applicabilità dal punto di vista pratico.
Se è vero che il BES e simili misure, comunemente definite “dashboard”, vantano una grande universalità di contenuti – non esistono vincoli materiali al numero di indicatori inseriti –, allo stesso tempo tendono a generare confusione e smarrimento. Infatti, non è difficile immaginare che tanto il decisore quanto il cittadino affrontino la cascata di 130 indicatori con la perplessità di chi si domanda “e quindi?”.
Per quanto volgare e frutto di un dogmatismo anti-intellettuale che in questa epoca storica non necessita di ulteriori tutele, tale domanda è legittima e ci impone non tanto di mettere in dubbio la reale efficacia del BES, quanto di vagliare le sue possibili criticità. Al fine di valutare le effettive qualità dell’approccio dashboard e delle sue alternative, prima di tutto è necessario prendere in considerazione ognuna di esse separatamente.
Approcci alternativi al Pil
Nel corso degli ultimi 50 anni, ovvero dagli albori della ricerca di strumenti da sostituire agli approcci tradizionali di valutazione del benessere e del progresso socio-economico, quattro sono state le principali metodologie adottate o considerate su grande scala: le misure correttive di carattere monetario, le misure soggettive di benessere, gli indicatori compositi, e i dashboard di indicatori.
Le misure correttive di carattere monetario – utilizzando un neologismo potremmo definirle “post-Pil” – hanno rappresentato storicamente il primo passo verso il superamento del Pil: esse partono dal presupposto che la produzione e il consumo di beni e servizi di un determinato Paese riflettano in maniera molto approssimativa il suo benessere economico. Al fine di sopperire a questa imprecisione di fondo, gli indicatori post-Pil correggono il dato relativo al prodotto interno lordo attraverso la considerazione di parametri ritenuti importanti nella determinazione del benessere e che nonostante ciò rimangono al di fuori dalle statistiche conteggiate nel Pil.
I parametri in questione, il cui valore è prima quantificato in termini monetari e in seguito sottratto o aggiunto a quello del Pil, includono le esternalità dei sistemi diproduzione, tra cui l’inquinamento, le disuguaglianze e l’esaurimento delle risorse, ma anche elementi positivi come il valore dei servizi forniti in maniera informale, oppure a livello domestico. In buona sostanza gli indicatori post-Pil, pur impiegando una importante innovazione di contenuto, sono caratterizzati dal presupposto secondo cui il Pil non è di per sé uno strumento scorretto, bensì meramente incompleto, e si prefiggono di rimediare a tale carenza piuttosto che abolirlo del tutto.
Diametralmente opposto è il presupposto ideologico che sta all’origine delle misure soggettive di benessere. Questo tipo di approccio, le cui basi scientifiche si collocano nel campo della psicologia positiva, risponde alla volontà di andare oltre all’equivalenza “prosperità economica = benessere”, e racchiude gli sforzi messi in campo nel tentativo di quantificare il benessere come concetto definito e percepito dal punto di vista della persona. Le misure soggettive di benessere si costruiscono partendo dai risultati di studi basati su indagini di tipo sociologico-psicologico (principalmente questionari auto-valutativi), il cui obiettivo è quello di determinare il livello soddisfazione della persona per il tipo di vita che sta vivendo.
Un approccio alternativo che negli ultimi anni ha suscitato un crescente interesse in ambito istituzionale, sia a livello nazionale sia internazionale, è esattamente quello sopracitato dei dashboard di indicatori. La parola dashboard si può in questo caso tradurre come “cruscotto” o “quadro strumenti”, ovvero la parte dell’automobile sulla quale si trovano i segnalatori relativi a velocità, numero di giri del motore, stato del serbatoio di benzina, eccetera. Come si può intuire, questo tipo di indicatori ha precisamente il funzionamento di un quadro-strumenti: fornisce dati di varia natura (non omogeneizzati né aggregati) relativi alle diverse variabili che si reputano necessarie alla valutazione del benessere.
L’ultima categoria, quella degli indicatori compositi, rappresenta un passo in avanti – quantomeno potenziale – rispetto alla categoria dashboard. Pur mantenendo la concezione di benessere come fenomeno oggettivo determinato da una pluralità di aspetti, gli indicatori compositi sono così chiamati perché presuppongo l’aggregazione dei dati relativi alle singole variabili in un unico valore numerico. Negli indicatori compositi, una volta raccolti i dati relativi ad ogni variabile, questi vengono prima normalizzati – ovvero trasposti su una scala comune che permette di confrontare dimensioni altrimenti incomparabili (basti pensare all’aggregazione di dati relativi all’aspettativa di vita con dati relativi alla qualità dell’aria) – e in seguito accorpati tenendo in considerazione il “peso”, ovvero l’importanza relativa assegnata a ogni dimensione.
Misure alternative a confronto
All’inizio di questo articolo è stato presentato il problema del BES e delle misure dashboard rispetto alla difficoltà con cui essi vengono recepiti tanto dalle istituzioni e dai decisori quanto dai cittadini. Nonostante sia un elemento importante per la valutazione di un indicatore, la fruibilità non è l’unica caratteristica da tenere in considerazione: altre caratteristiche delle misure di benessere includono l’affidabilità (quanto attendibile è il dato prodotto), la rilevanza (quanto accuratamente si considera il benessere in quanto tale) e la democraticità (quanto condivisibili sono la metodologia e le variabili adottate).
In termini di democraticità nessuna delle misure alternative qui considerate presenta criticità degne di nota, in quanto ognuna di esse permette almeno in linea teorica di sviluppare un dibattito di tipo deliberativo volto a garantire l’espressione democratica degli interessi di ogni parte coinvolta.
Diverso è invece il quadro riguardante l’affidabilità e la rilevanza delle misure. In termini di affidabilità il Pil, che si basa su statistiche ufficiali e consolidate, è chiaramente superiore a tutti gli approcci alternativi, che arrancano notevolmente su questo fronte – prime fra tutti le misure soggettive di benessere. Nella valutazione di quest’ultime, infatti, è importante considerare il problema insito nel loro carattere soggettivo: domandare alle persone quanto siano soddisfatte della propria vita, o quale sia il livello di benessere che percepiscono, tende a generare risposte la cui attendibilità risente dell’influenza di elementi emotivi e cognitivi.
Basti pensare alla tendenza della persona ad adattarsi alla propria condizione e alla maniera in cui essa percepisce il cambiamento: immaginiamo un individuo abituato a vivere in condizioni di estrema indigenza e che improvvisamente vede il proprio reddito aumentare in misura tale da permettergli finalmente di consumare due pasti completi al giorno invece di uno. Ora immaginiamo un secondo individuo che, abituato a una vita agiata tra ville e auto di lusso, vede improvvisamente le proprie disponibilità economiche ridursi fino al punto di potersi permettere solamente di consumare due pasti completi al giorno. Sebbene i due individui siano dal punto di vista oggettivo nella stessa condizione di benessere, è plausibile immaginare che il secondo tenderà a riportare una percezione di benessere nettamente inferiore rispetto al primo. Simili caratteristiche della natura umana, e nonostante i progressi metodologici che hanno portato a un netto miglioramento delle misure soggettive di benessere, fanno sì che quest’ultime non godano dell’attendibilità necessaria a gettare le basi di politiche pubbliche efficaci.
L’affidabilità è del resto un problema che riguarda non solo le misure soggettive, ma anche quelle oggettive, come ad esempio gli indicatori compositi. Sebbene dal punto di vista teorico questo tipo di indicatori non presenti criticità rilevanti, sotto il profilo metodologico gli indicatori compositi faticano a mantenersi su standard adeguati.
Infatti, pur guidate da metodi matematico-statistici sempre più affidabili, sia la procedura di normalizzazione dei dati sia quella di assegnazione dei pesi risentono dell’inevitabile arbitrarietà che guida la scelta dei parametri dai quali dipendono. Tuttavia, sebbene gli indicatori compositi non siano scevri da vincoli metodologici considerevoli, essi rappresentano una notevole opportunità di avanzamento nell’ambito della rilevanza. Infatti, come anche gli indicatori dashboard, grazie alla libertà di scegliere le variabili da tenere in considerazione, gli indicatori compositi permettono di adattarsi a qualsiasi definizione di benessere venga proposta, senza dipendere da precise espressioni culturali e ideologiche come nel caso delle misure soggettive e quelle post-Pil.
Pur equiparabili alle misure dashboard in termini di rilevanza, gli indicatori compositi sono notevolmente più immediatie fruibili. Diversamente da misure quali ad esempio il BES, gli indicatori compositi hanno il vantaggio di fornire una valutazione chiara attraverso un dato sintetico, che seppur non significativo in sé, attraverso la comparazione su scala temporale permette di valutare il progresso (o regresso) di una comunità su più dimensioni contemporaneamente. Sebbene altre misure di benessere siano equiparabili agli indicatori compositi in termini di fruibilità, pare evidente che essi abbiano un significativo vantaggio sul piano della rilevanza.
Lo stato attuale della ricerca nell’ambito della misurazione del benessere presenta dunque un quadro complesso all’interno del quale, pur in presenza di vantaggi comparati di una misura sull’altra, non esiste un candidato chiaramente superiore agli altri. Tutto ciò, purtroppo, contribuisce all’impasse della comunità “Beyond GDP” di fronte alla scelta di un’alternativa chiara al Pil.
Al fine di superare le attuali difficoltà è necessario abbandonare la visione idealistica che ha prevalso fino a ora, in virtù di un approccio più pragmatico e orientato alla realizzazione di un obiettivo preciso. Se tale obiettivo, sul quale ormai da tempo sembra esserci consenso, è quello di superare il Pil e sostituirlo con una misura alternativa di benessere, allora la strategia vincente deve considerare le possibilità di successo di tale misura.
Questo implica la necessità di valutare non solo le caratteristiche puramente scientifiche di ogni indicatore, ma anche il suo impatto in termini politici. Per quanto il BES rimanga un importante esperimento di assoluta avanguardia, fino a quando si scommetterà su simili misure – scientificamente affidabili, ma di scarso impatto – l’effettivo superamento del male peggiore, ovvero il Pil, rimarrà con ogni probabilità un’utopia.
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