mercoledì 8 febbraio 2017

La lettera del 30enne suicida: siamo davvero una generazione perduta?

lettera_MV-kpiF-U11001179471995xeH-1024x576@LaStampa.it

Se siamo o no una generazione perduta dobbiamo deciderlo noi. E in fretta. La stessa fretta che ci mette la lettera d’accusa lasciata da Michele, il ragazzo friuliano suicida perché stanco di essere precario. Il trentenne si è tolto la vita lasciando una nota durissima e lucida pubblicata con il consenso dei genitori sul Messaggero Veneto.  Da giorni ormai  quelle righe rimbalzano su tutti i principali media italiani perché l’ex grafico ci descrive tutto l’annichilimento di chi non ne può più di sentirsi sfuggire il futuro dalle mani a colpi di colloqui di lavoro andati male. A colpi di blocchi costanti alla propria autodeterminazione come persona creativa, progettuale.

Potremmo riempire interi paragrafi con la retorica sui tempi difficili, con il dubbio che forse quelli come Michele la fanno finita per motivi altri, più profondi – ma cosa c’è di più profondo della propria dignità? –   con la rabbia nei confronti dei nostri genitori che pensavano di fare il ’68 e invece si sono imborghesiti godendo di pensioni che paghiamo noi trentenni, ecc…ecc… Ma se la mettiamo così non usciremo mai da quel circolo vizioso che la lettera di Michele ci sbatte in faccia in modo chiaro: l’etichetta degli sfigati bamboccioni che una certa incolta e superficiale mentalità affibbia a noi giovani è un vestito che ci ha confezionato il contesto – questo è vero – ma che dobbiamo strapparci via noi. Lottare perché il sarto  rattoppi l’abito da bimbo di sei anni per farlo somigliare a quello di un adulto è una follia: bisognerebbe lottare per il proprio progetto di vita non per quello malriuscito dei nostri genitori.

È vero, la cultura da “mamma chioccia” o “sanguisuga” del sistema del lavoro italiano è soffocante e se non c’è piena occupazione, stipendio e stabilità come si fa a crescere e a uscire dalla spirale della mera sopravvivenza?  Quando c’è una impresa che investe nei suoi collaboratori o che fa fare carriera per merito, dove i superiori si comportano da persone normali e non da educatori repressi noi ci scriviamo un pezzo perché è una notizia: finalmente un’oasi nel deserto.  Ma in realtà è un approccio sbagliato. È così che dovrebbe essere, ordinario, banale. Usuale.

Qual è la ricetta allora? Michele doveva andarsene dall’Italia? O almeno dalla sua città? Doveva fare qualcos’altro? Uno di quei lavori che gli italiani non vogliono più fare? Forse, ma stavolta diamo almeno a quelli come Michele il diritto al supporto delle sue ragioni, non del suo gesto. Michele incarna tutti quelli che vogliono scoppiare perché il lavoro non ce l’hanno o vedono triturato il proprio talento o vorrebbero guadagnare in modo dignitoso (1200 euro non è dignità è sopravvivenza, ficcatevelo in testa). Michele incarna anche tutti quelli a cui è stato ripetuto come un mantra che il suo lavoro dovrebbe essere come quello immaginato e avuto dai suoi genitori ma che purtroppo non avrà mai.

Sembra di vivere in una sceneggiatura scritta da un gruppo di  nonni sadici (con un inciso: “non pensate che anche le generazionni più anziane in questo Paese se la passino bene”).

Ma dove è scritto che dobbiamo seguire questo copione? Qui i dati sulla disoccupazione c’entrano, ma fino a un certo punto. Nel 2016 sono nate 44 mila nuove aziende in più sul territorio italiano (lo dicono i dati Movimprese). Non si tratta di lanciarci tutti nel freelancismo più sfrenato, nel metterci in proprio. Nell’accontentarsi dei lavoretti. Un’economia prospera solo quando  presenta un equilibrio tra imprenditoria e lavoro dipendente, tra attività progettuali e creative e mansioni tecniche, specialistiche. Tra flessibilità e stabililità. La dovremmo smettere di dire che il lavoro a tempo indeterminato è un retaggio del passato: è una innovazione che va rivisitata e migliorata, non cancellata. E non scomodate Biagi dicendo che è tutta colpa della sua legge se siamo in queste condizioni: riprendetevi lo studio del giuslavorista e scoprirete che a) la legge che ne è poi nata era anni luce diversa da ciò che il professore aveva indicato; b) non è mai una previsione normativa  a creare un fenomeno, ma è il fenomeno che senza regole adeguate crea una crisi di sistema.

Michele indica in realtà la strada perché le condizioni lavorative migliorino e per quanto il suo sia un gesto disperato non è la prova che un’intera generazione è perduta.

Il primo insegnamento che possiamo trarre dal suo suicidio è che è inutile continuare a fare i confronti con il passato: il sistema di tutele e diritti nel mondo del lavoro continua ad essere eroso, non dalla globalizzazione o dal Jobs Act (i dati smentiscono sempre e sistematicamente queste posizioni), ma da una disapplicazione in casa nostra di quelle regole che ancora abbiamo per fortuna, e da un sistema giudiziario  lento che impedisce di perseguire bene e in fretta datori, aziende (e anche lavoratori) che abusano della propria posizione. Il secondo insegnamento è che non occorre farsi prendere dal panico al pensiero di dover continuare a lottare o ricostruire un pezzo di quelle tutele: è una costante delle conquiste sociali del Novecento e continuerà ad esserlo nei prossimi 100 anni, è talmente chiaro che è inutile anche discuterne.

Il panico semmai è quello che i nostri genitori tendono a inculcarci perché loro hanno visto costruire un sistema che ora è semidistrutto: la depressione, purtroppo, è della loro generazione. Noi non dobbiamo farcene carico e non dobbiamo limitarci a immaginare il posto fisso. Dobbiamo costruire un mondo del lavoro che dia i benefici del posto fisso con una dinamicità che negli anni Cinquanta potevano solo sognarsi. Bisogna scendere in piazza? Anche. Un’idea sarebbe, accanto alle migliaia di petizioni Change.org che sottoscriviamo, farne una per ampliare gli incentivi del Jobs Act e un’altra per investire nei centri per l’impiego a livello provinciale perché da lì passa il sostegno a chi cerca occupazione. Il terzo insegnamento è che si può essere avvelenati quanto vogliamo con i Poletti della situazione e sempre con i nostri genitori: ma concentrare le energie nella recriminazione fa male solo a noi e crea un bruttissimo solco in cui le vecchie e le nuove generazioni si fanno una guerra inutile.

Altro insegnamento è che tutti i “no” che si è sentito dire Michele ai colloqui in realtà dovremmo pronunciarli noi: no a condizioni di lavoro disumane, no a paghe troppo basse, no a contratti con clausole con cui rinunciamo a fare causa all’azienda se rimaniamo incinte e veniamo licenziate.  Un bracciante di 60 anni taglieggiato dai caporali questo non può permetterselo, noi sì ed è uno strumento di lotta che dovremmo onorare più spesso.

Infine, l’ultimo insegnamento è per i nostri politici: abbiate il coraggio di investire in crescita con una defiscalizzazione forte a favore del costo del lavoro . Fatelo e vedrete che la generazione di Michele ve ne sarà eternamente grata. A tutti quegli adulti – non quelli in difficoltà come i trentenni, non quelli che sputano sangue per portare a casa 800 euro al mese –   che invece fanno gli gnorri, quelli che si lamentano perché non hanno più la 14dicesima in busta paga, quelli che predicano bene e poi ingaggiano il freelance che possono pagare di meno e in ritardo, invece, diciamo solo questo: fateci un favore, state zitti.

The post La lettera del 30enne suicida: siamo davvero una generazione perduta? appeared first on Wired.



Fonte: https://www.wired.it/economia/lavoro/2017/02/08/la-lettera-del-30enne-suicida-davvero-generazione-perduta/

Nessun commento:

Posta un commento