Mel Gibson è approdato al paradiso dei registi, quel luogo della creatività in cui ogni film realizzato è un miracolo di economia di gesti e narrazione minimale. Lo stesso in cui risiede Clint Eastwood, assieme ai suoi film asciutti e tutti d’un pezzo. Nonostante il suo stile rimanga molto retorico e pesante — molto affaticato dal desiderio di rendere non le sfumature umane, ma le titaniche gesta e volontà di uomini che si può definire solo come “coraggiosi”, — lo stesso Hacksaw Ridge mostra una passione per l’essenzialità del racconto che subito lo rende imperdibile.
Hacksaw Ridge conquista già nella prima parte, quella in cui Desmond Doss, giovane ragazzo di pulite e immacolate intenzioni, diviso tra una famiglia con padre reduce ubriacone e manesco e una dolce storia d’amore attenuata dai toni anni ‘40. Dalla memoria del primo atto di violenza, un montaggio rapido di pochi momenti essenziali, come se Gibson sapesse andare al dunque affiancando poche immagini (la violenza, la consequenza, la preghiera).
Una volta esposto l’animo indomito e coscienzioso di Desmond attraverso un assaggio della sua vita il film entra nel vivo: Desmond è obiettore per motivi religiosi, non intende toccare un fucile, ma nondimeno vuole partire per il fronte della seconda guerra mondiale. Vuole fare la sua parte. L’addestramento con gli altri sarà un massacro di insulti e violenza per il suo non essere allineato. Accuse di fiancheggiamento con il nemico e incomprensione dei suoi principi.
La guerra per Gibson è solo morte e macello della carne. È il martirio di Gesù o la persecuzione di Apocalypto come la violenza di Braveheart, e Desmond Doss affronta il suo martirio in un inferno che fa impazzire tutti, con niente addosso, nessuna arma, come un prete, un missionario o un uomo di fede. In quel delirio di esplosioni, urla e morti improvvise, sembra che possa farsi strada solo una forza di volontà. Più di ogni arma e plotone, più di quel che gli uomini possono fare può una volontà di ferro.
Per godersi a pieno questa ode al coraggio e alle personalità capaci di andare controcorrente bisogna sgomberare subito l’animo di ogni pregiudizio verso chi dirige e verso le sue idee. Non c’è bisogno di essere d’accordo con Mel Gibson per godere di come racconta, di come celebra l’eroismo reale (è una storia vera) di Desomnd Doss, così forte nella sua temperanza, così indomito e coriaceo nel promuovere un ideale di tolleranza e salvataggio delle vite invece di uccisione delle altre. Non c’è insomma bisogno alcuno di approvare certe scelte, serve solo di seguire per il tempo del film il ragionamento e la via crucis del protagonista con occhi non velati dal pregiudizio.
Si pensi ad esempio al sergente istruttore di Vince Vaughn, un piccolo capolavoro di complessità, bastardo e ironico, comprensivo e inflessibile. O ai commilitoni che oscillano tra gli estremi della condanna e della comprensione e un’epica terminale, nell’ultima lunga parte del film, che è proprio il cinema americano al suo meglio, quello capace di lavorare sulla morale a partire dai sentimenti e dai valori più elevati, giganteschi e titanici. Senza presentare la minima sfumatura insomma Mel Gibson è capace di accoppiare gli opposti, la guerra e la pace, la religione e l’ateismo, il cameratismo e l’individualismo, il senso della comunità e l’individualismo, tradizione e innovazione. Tutto all’insegna dell’anticonformismo, dell’affermazione di un’idea contro tutti.
E una volta tanto appare davvero perfetto Andrew Garfield, volto ordinario e popolare, fisico secco e incapace di sopportare la violenza morale ed effettiva che invece sopporta con una potenza contagiosa. Il suo corpo segaligno dagli occhi lucidi è una delle armi di Gibson per rendere il contrasto tra fragilità della carne e potenza della mente. Anche nell’ultima grande fase, nella battaglia che dà il titolo al film, sarà proprio la precarietà del protagonista messa in relazione con lo sfondo di una guerra resa nella maniera più devastante possibile, a creare l’epica.
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