Rubrica a cura di Angelo Luigi Camillo Ciribini
BIM, Building Information Model o Building Information Modeling (in realtà, anche Computational Design), il prodotto e il processo, è un acronimo destinato ad avere grande risonanza in Italia, a partire dalla pubblicazione, nel corso del 2017, del decreto ministeriale (delle Infrastrutture e dei Trasporti) previsto dal Codice dei Contratti Pubblici.
Qualsiasi siano le modalità e le tempistiche dell’adozione obbligatoria, il BIM senza dubbio fungerà da detonatore di un fenomeno assai più vasto, la Digitalizzazione, che nell’immaginario collettivo ormai comprende entità eterogenee, dai dispositivi per la realtà mista ai sensori RFID, dalla manifattura additiva al modello informativo, dai droni con laser scanner ai robot di cantiere, appunto.
Il tema è, peraltro, più praticato di quanto non si creda e, sia a livello internazionale/sovranazionale sia a livello nazionale, i riferimenti normativi non mancano, anzi iniziano a sovrabbondare, così come la pubblicistica e l’offerta formativa.
BIM è, dunque, processo, metodo, strumento, è questione organizzativa, giuridica, tecnologica, è hardware, software: entità eterogenee e multiple, insomma.
Quanto di tutto ciò che si è poc’anzi menzionato è, tuttavia, davvero, all’interno della vastissima categoria dell’innovazione, realmente presente nella quotidianità degli operatori economici del Settore?
Più di quanto non si immagini (i geometri che utilizzano i droni per il digital survey), meno di quanto non si creda (gli architetti che impiegano gli occhiali immersivi): e, soprattutto, diversamente da quanto non si ritenga.
Questo, inoltre, accade in un contesto committente in fase di aggregazione, in un mercato professionale sovraffollato, dai redditi medi al di sotto dei livelli europei, in un mercato imprenditoriale caratterizzato da concorrenza sleale (in termini di regolarità, previdenza, fiscalità, contrattazione collettiva), in un mercato produttivo in cui le associazioni di categoria hanno visto le defezioni per fallimento: ma pure in un mercato, in cui i soggetti più competitivi si rivolgono con sempre maggiore insistenza altrove.
Si tratta, perciò, di un mercato ridimensionato che, comunque, segna valori timidamente positivi, tanto nelle costruzioni quanto nell’immobiliare e che, di conseguenza, con esitazione, inizia a sottrarsi alle categorie della recessione, alle retoriche della crisi.
Il BIM, allora, per quello che può significare (probabilmente tutto quanto elencato in precedenza), è ormai all’attenzione di tutte le rappresentanze (non solo, per dire, di ANCI, ITACA, CNI, CNAPPC, COGeGl, OICE, ANCE, CNA, Federcostruzioni, FINCO, ma anche di AISCAT, di Angaisa o di Federcomated): alcune di esse costituiranno gruppi di lavoro, altre promuoveranno progetti pilota, e così via.
Vi possono essere, quindi, “luoghi” in cui rappresentanze e rappresentati possano raccogliersi e confrontarsi: con chi, con che cosa?
Con softwarehouse che, direttamente indirettamente, evolvono in consultancy, con soggetti accademici che offrono iniziative formative e attività di ricerca, con altri attori di varia natura.
La questione è che, a breve, potrebbe esistere un obbligo, sia pure ragionato, sia pure incrementale, ma non sussisterebbe una strategia, un centro di competenza, una comunità virtuale: tutte cose che, altrove, sono facilmente reperibili, almeno nei casi migliori.
Il fatto è che qualunque dei soggetti appena citati è stato in grado di portare alla ribalta le best practice (che esistono pure nel Nostro Paese): ma esse o sono episodiche o sono indotte dalla presenza sui mercati comunitari e internazionali, difficilmente riguardano organizzazioni non strutturate.
Si giunge, pertanto, al nucleo della questione, al fatto che solo entità debolmente o fortemente strutturate possono competere su un mercato digitalizzato evoluto, poiché esso è naturalmente selettivo, oltre che tendere, progressivamente, a semi-automatizzare le attività ripetitive e mediocri (si veda la applicazione dei sistemi di questo genere di verifica delle pratiche relativi ai titoli abilitativi dell’edilizia privata).
Sin qui, d’altronde, si è trascurata la committenza privata, così come lo sviluppo immobiliare: occasioni che, in buona sostanza, potrebbero trarre dalla Digitalizzazione benefici ancor maggiori.
Dal 2017 al 2020, in questo quadriennio, si maturerà interamente il valore di novità del BIM: prima che sia stato irrimediabilmente banalizzato, prima che abbia cessato di essere uno spauracchio.
Certo, oggi, chiunque può organizzare un convegno, convocando, tra gli altri, il Comune di Milano e l’Agenzia del Demanio, Citterio Viel e Lombardini 22, Italferr e ANAS, Manens Tifs e Politecnica,Salini Impregilo e Astaldi, Cimolai e Valsir, Manutencoop e Siram: per affermare che anche in Italia si possa esporre una vetrina “presentabile”, che si possa avviare una discussione con soggetti “acculturati”.
Che cosa si potrebbe, però, dire dei loro fornitori? Che cosa, specialmente, si dovrebbe affermare della pancia profonda del mercato? Come far emergere pratiche, forse riferite a medie organizzazioni, meno eclatanti, meno conosciute, ma, probabilmente, a una scala minore, non meno interessanti?
Soprattutto, come giungerà la piccola storia del BIM ai micro committenti, professionisti, imprenditori: in assenza di un grande racconto sulla Digitalizzazione come è Digital Built Britain?
Come una tematica circoscritta alla stressa stregua della certificazione energetica, come un adempimento a cui sottrarsi che genera extracosti, come una agevolazione fiscale simile a quella per il miglioramento sismico?
In particolar modo, occorre domandarsi: atteso che il BIM possa intendersi, secondo diversi gradi di difficoltà, come strumenti (da acquistare), come metodi (da apprendere), come processi (da mettere in atto), possiamo seriamente credere che sia in grado di sortire effetti positivi senza mettere mano alla riconfigurazione del mercato, senza ridiscutere la distinzione dei ruoli, senza accelerare le aggregazioni dimensionali?
Possiamo veramente credere che la Digitalizzazione, che muta il prodotto immobiliare con la Smart City di Schneider Electric o di Siemens, che accorcia la catena di fornitura colla Uberification di Amazon e di Saint-Gobain, che autonomizza la produzione manifatturiera dell’indotto edilizio con la riduzione dell’intensità di capitale umano, miracolosamente possa efficientare mercati talvolta corrotti, sempre conflittuali, raramente integrati sul ciclo di vita, senza intaccare gli assetti consolidati?
Analogamente, possiamo davvero credere che sia sufficiente allestire qualche decina di corsi post-lauream per formare una generazione digitale nel Comparto?
Epperò, poi, si possono mostrare applicativi informatici per tutte le finalità (Surveying, Space Programming, Authoring, Computing, Crowd Simulation, Gamification, Checking, 4D, 5D, 6D, 7D, nD), si possono esporre tutti i dispositivi (laser scanner, immersive wearable device, CAVE, componenti sensorizzati, impianti di produzione additiva di edifici, robot che posano pareti in laterizio).
Ma come mostrare IBM Watson IoT che parzialmente rende automatizzati i processi decisionali di gestione del cantiere o dell’edificio?
Come, più trivialmente, restituire il disagio culturale di progettisti che, con il BIM, sono tenuti a settare e a sincronizzare i modelli informativi da federare, che non riescono, per limiti del software, a modellare gli staffaggi, che perdono dati dal passaggio tra ambienti di calcolo e ambienti di modellazione?
È un problema che attiene alla cultura digitale, al fatto che Dati e Informazioni Computazionali conferiscono valore aggiunto a qualsiasi attore coinvolto in qualsiasi intervento.
Fonte: https://greenhubblog.com/2017/01/31/2017-2020-gli-anni-del-bim/
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